Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) applicato è la manifestazione dell’autonomia privata e produce i suoi effetti nei confronti delle parti collettive che hanno stipulato il contratto, dei soggetti iscritti alle suddette associazioni sindacali dei lavoratori e datori di lavoro e di coloro che, seppure non iscritti alle organizzazioni stipulanti, hanno aderito al contratto collettivo implicitamente o esplicitamente.
Nel nostro ordinamento vige il principio della libertà di scelta del CCNL da parte del datore di lavoro. Nel caso di un modificato interesse rispetto ad un assetto contrattuale ritenuto non più soddisfacente, il datore di lavoro può prendere in considerazione l’ipotesi di recedere dall’adesione alla normativa collettiva, ad esempio, nelle seguenti ipotesi:
- crescita dimensionale o modifica dell’attività aziendale primaria;
- trasferimento d’azienda;
- procedure concorsuali o crisi d’impresa;
- successione d’appalto;
- volontà unilaterale del datore di lavoro.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 31148 del 21 ottobre 2022, si è pronunciata sulla legittimità della variazione del CCNL sostenendo che il lavoratore non può far valere il principio di irriducibilità della retribuzione pretendendo il trattamento retributivo previsto in relazione al CCNL originariamente applicato.
Nel caso in trattazione, una dipendente di una nota emittente radio nazionale, assunta con le mansioni di “radio reporter” con applicazione, inizialmente, del contratto collettivo nazionale di lavoro giornalistico e, in seguito, del contratto collettivo nazionale Radiotelevisioni private, deducendo l’inefficacia o comunque l’illiceità del mutamento del contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro, agiva per la condanna del datore al pagamento delle differenze retributive spettanti sulla base del contratto collettivo nazionale giornalisti originariamente applicato.
La Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda della giornalista pubblicista condannandola alla restituzione della somma, calcolata al lordo, oltre accessori, corrisposta dalla società datrice di lavoro in esecuzione della sentenza di primo grado.
La Corte Suprema rilevava preliminarmente che la modifica negoziale della fonte collettiva applicabile al rapporto risultava essere espressione della libera esplicazione dell’autonomia privata riconosciuta dall’ art. 1322 c.c.
Secondo gli ermellini, inoltre, non sussisteva alcuna violazione dell’art. 2077 c.c. atteso che il contratto collettivo costituisce una fonte eteronoma di integrazione del contratto individuale. Ugualmente era da escludersi la violazione degli artt. 2103 e 2113 c.c., prospettata con riferimento alla modifica peggiorativa del trattamento economico conseguente alla mutazione di CCNL, poiché, nell’ipotesi di successione dei contratti, sono possibili anche modificazioni “in peius” per i lavoratori, con il solo limite dei diritti quesiti dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di ritenere acquisito un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente.
Su tali presupposti la Corte rigettava il ricorso, ritenuto che la lavoratrice non avrebbe potuto far valere il principio della irriducibilità della retribuzione pretendendo il trattamento retributivo previsto dai CCNL intervenuti nel tempo. Tutt’al più la stessa lavoratrice avrebbe potuto richiedere la cristallizzazione della retribuzione percepita all’atto della modifica contrattuale e rivendicare differenze retributive a titolo di superminimo.
Sono tuttavia fatti salvi i diritti già acquisiti, quali le retribuzioni per prestazioni di lavoro svolte durante la vigenza del primo contratto collettivo. Infine, la Suprema Corte affermava che la modifica del contratto individuale, consistente nella sostituzione del CCNL di riferimento, non costituisce rinunzia a diritti acquisiti dal lavoratore. Dunque, in caso di successione tra CCNL, non è necessario che il contratto individuale venga modificato in una delle sedi protette ex art. 2113 c.c.